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| | Di là dal fiume e tra gli alberi Ernest Hemingway - Editore: Mondadori , 1999 I 48 giorni del giovane colonello ubriaco Così Hemingway presentò "Di là dal fiume e tra gli alberi": «L'idea mi venne in una nebbia alcolica»
La voce è calda e robusta, profonda. Scandisce frasi brevi, in un inglese pulito. E’ stata riascoltata qualche settimana fa nel luogo dov’era echeggiata tante volte: l’Harry’s Bar di Venezia. Per chi ascoltava, l’effetto era straniante. Come se, per i nove minuti di durata della registrazione, nella sala fosse calato il buio e una piccola luce avesse illuminato unicamente il leggio di un attore e, insomma, come se l’io narrante si esprimesse per interposta persona. Solo che quella non era una recita e chi parlava — con timbro non falsificabile, alla stregua di una firma — era Ernest Hemingway, che in una serata degli anni Cinquanta aveva intrattenuto un gruppo di amici con la storia del suo «prossimo romanzo». Una tall tale, cioè un racconto paradossale, deformante e assurdo tipico di una certa tradizione dell’Ovest americano, che rovesciava le vicende di Di là dal fiume e tra gli alberi.
Protagonisti sono un colonnello di 18 anni che proprio all’Harry’s incrocia una contessa di 86, destinata però a uscire subito di scena, nascosta per lunghi giorni nei recessi della basilica di San Marco. E c’è una ragazza della quale l’ufficiale s’innamora e che sposa, Afdera, destinata a essere presto stroncata da un congenito vizio cardiaco, mentre il disperato coniuge si butta in laguna e nuota verso Chioggia fino a sparire. Trama concepita come scherzo letterario, perché allude ai veri personaggi presenti in Di là dal fiume..., invertendone ruoli e profili. Il gioco di identificazioni, gelosie e rivalità, che deve tener conto della geografia lagunare e delle conoscenze dello scrittore (ci sono Cipriani e il suo bar, un «prete nero» assiduo alla Finca Vigia di Cuba, Torcello), è trasparente. Il giovane colonnello è il soldato Cantwell del libro, vecchio e pieno di cicatrici, lui sì malato cardiaco tanto da morirne. E l’amata ragazza non c’entra con Afdera (vero nome della baronessa Franchetti, poi moglie di Henry Fonda, che in un’intervista all’Europeo si era vantata d’aver ispirato il romanzo), ma Adriana Ivancich.
E’ lei la «Renata» del libro — «la pelle pallida e quasi olivastra, un profilo che avrebbe colpito al cuore chiunque, i capelli bruni di fibra vivace, le gambe veneziane» —, la ragazza aristocratica sulla quale Hemingway, innamorato dell’amore, aveva fatto lievitare «un’atmosfera da nascita di Venere». La parodia a chiave sembra dunque una sorta di vendetta contro Afdera, sorella del grande cacciatore Nanuk, e di tutela verso Adriana, una «daughter» che al corteggiamento di «Mister Papa» concesse solo brividi platonici. Un risarcimento perché la Venezia di allora, bigotta e provinciale nonostante l’aria cosmopolita, le aveva fatto pagare con insopportabili pettegolezzi il sospetto che «l’amore in gondola» accennato in un capitolo celebre fosse veridico. Ma a leggere la trascrizione del monologo (recuperato da Gianni Moriani, docente alla Venice International University e ideatore di una recente mostra su Hemingway e il Veneto, e studiato da Rosella Mamoli Zorzi, americanista di Ca’ Foscari), altri indizi affiorano, di quello che fu definito un «romanzo dei presentimenti». Ad esempio, una vaga ansia di autodistruzione dietro i continui «let’s get drunk» dello scrittore, suicidatosi con una fucilata il 2 luglio 1961 a Ketchum, nell’Idaho. Qualche anno prima aveva scritto ad Adriana: «Se io morissi puoi far sapere a tutti quanto tenga a te e hai in mano lettere chiare per provarlo». Lei, forse per sgombrare anche l’ultima memoria, le aveva vendute per 7000 sterline da Christie’s. E il 24 marzo 1983 seguì la sorte di «Papa», togliendosi la vita a Orbetello.
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Hemingway ha reso il dialogo struttura narrativa portante e essenziale della sua narrazione. In questo romanzo il dialogo risulta travolgente, magmatico, fluente. Un Panta Rei che travolge tutto, che trascina il lettore, che spumeggia e si accascia, sprizza vivacità e si smarrisce. Questo romanzo è essenzialmente disperato. Le tematiche trattate, il periodare, le concezioni esposte: tutto contribuisce a formare un’idea di tristezza e mestizia umana che ottenebra il lettore. A tratti si percepisce una certa vivacità e allegria speculativa, ma è purtroppo solo un ritorno al passato, perché è la nostalgia che domina l’opera. Sembra il canto del cigno del forte che si rassegna alla vita, e alla sua estrema conseguenza. Tragico, ma edificante.
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